Riflessioni

“Parliamone ancora”

Giovanni Del Missier

 

A distanza di qualche tempo dalla tragedia di Pisa, che ha visto la morte di una psichiatra per mano di un malato mentale e i successivi contributi di vari esponenti della psichiatria, della politica e della cultura in genere, ho pensato che valesse fortemente la pena proporre una riflessione che non fosse solamente o dettata dalla immediata indignazione, o fondata sulla riduttiva valutazione statistico-epidemiologica di episodi simili.

Riflessione dettata da un più che quarantennale lavoro psichiatrico e psicoterapeutico, esito di una altrettanta lunga formazione svolta con lo psichiatra Massimo Fagioli e la sua Teoria della nascita.

Una riflessione il più possibile ponderata che non si esaurisca nello sterile ballottaggio tra “legge sì e legge no” oppure tra “malattia o delinquenza” ma che prenda in esame la vicenda partendo da alcune specifiche caratteristiche del rapporto medico paziente in psichiatria.

Personalmente penso che sia la comprensione del fatto sia la proposta di eventuali correttivi di qualunque tipo si tratti (organizzativi-sanitari, istituzionali-legislativi, terapeutici-riabilitativi) esigano, per essere credibili, di una chiarezza preliminare: la distinzione tra “curare” e “prendersi cura”.

Il prendersi cura dipende essenzialmente dalle caratteristiche dell’operatore sanitario coinvolto, fondamentalmente dalla sua affettività. Che esso sia un terapeuta (medico o psicologo) o un infermiere o un’assistente sociale è sempre a lui possibile il prendersi cura di chi sta male. Sottolineiamo anziché, prima ancora che dettato da obblighi professionali, il “prendersi cura” è un elemento generico relativo alla naturale relazione con i nostri simili come movimento di reazione istintiva alla sofferenza altrui. Per cui diciamo che essa non è affatto specifica di un operatore sanitario ma appartiene a chiunque sia “semplicemente umano”.

È la base di partenza indispensabile ad ogni possibile cura ma non esaurisce in sé le prerogative di un atto medico. L’atto medico, espressione tangibile e concreta della cura propriamente detta, necessita per realizzarsi, tra gli altri fattori, di un “rapporto medico paziente”, cioè di uno specifico rapporto (terapeutico) tra chi è autorizzato dalla Società civile a curare ovvero ha la facoltà di intervenire su un altro essere umano e colui che chiede per sé un intervento terapeutico (accetta di essere paziente) relativo ad una propria sofferenza e/o patologia. Ma proprio qui sta l’enorme differenza tra la medicina della mente e quella del corpo.

Nella medicina del corpo il medico può giungere a curare un malato anche se questi non è un paziente richiedente, per es. con un’operazione chirurgica d’urgenza ad un soggetto in coma; nella medicina della mente intesa come cura per la guarigione (ovvero la psicoterapia propriamente detta) invece no, il terapeuta può avere una qualche efficacia solo se il malato accetta, nella coscienza e nell’inconscio, il suo intervento. Ovvero solo quel malato che voglia essere paziente di uno psicoterapeuta diventa passibile di curabilità.

Al netto di altri indispensabili requisiti (le prerogative del terapeuta, la validità della sua teoria, le reazioni ambientali e le caratteristiche della specifica malattia mentale in questione) la curabilità dipende innanzitutto dal malato stesso e dalla sua disponibilità ad essere paziente in uno specifico rapporto psicoterapeutico.

Perché, infatti, il malato mentale può optare per una richiesta, consapevole o inconsapevole, di aiuto o di terapia oppure no e manifestare una ferma opposizione ad un qualunque intervento esterno volto a modificare il suo status attuale. Tale opposizione può arrivare a volte anche a reazioni violente di fronte a tali tentativi. Reazioni determinate a volte da un pensiero alterato per cui non è la sua malattia a provocare negli altri un intervento ma sarebbero gli altri (i medici, gli psichiatri, la società) la causa del suo stato, conseguentemente solo eliminandoli egli può smettere di soffrire.

Non è il caso qui di indagare il movimento psicodinamico della mente, sottostante a tali pensieri e comportamenti, esso si basa su “l’annullamento e la negazione” della realtà ed è ampiamente rintracciabile nella teoria della nascita a cui si rimanda.

Limitiamoci alla fenomenologia manifesta e magari facciamo anche una qualche veloce analogia con quanto accade in certi femminicidi in cui la donna sarebbe non la vittima ma la causa del male! Oppure in certe prese di posizione no vax nella pandemia, per cui non è il virus la causa patogena ma il vaccino e, volendo spingersi oltre, si potrebbe includere anche certe affermazioni antipsichiatriche per cui sarebbe l’Ospedale psichiatrico la causa della malattia mentale eccetera.

A me qui la distinzione tra malato (colui che è affetto da patologia) e paziente (colui che richiede la cura), ben evidente nella medicina della mente, interessa in quanto permette di mettere un primo paletto nella vicenda pisana: l’assassino non era né un paziente né un ex paziente (nel senso suindicato) della dottoressa, ma era un malato (precedentemente ricoverato obbligatoriamente nel reparto diretto dalla collega), un malato grave divenuto incurabile di cui la vittima cercava, umanamente, di prendersi cura e, professionalmente, di curare, invano.

Andiamo oltre.

Senz’altro sbaglia chi interpreta questa tragedia pisana come avente due soli protagonisti, infatti i protagonisti della vicenda non si esauriscono nella coppia psichiatra malato, ma bisogna necessariamente prendere atto della presenza di un terzo attore sulla scena del delitto, esso è lo specifico contesto che fa da sfondo alla tragedia.

Uno sfondo che sarebbe semplicistico delineare come la frequente disfunzionalità che purtroppo caratterizza spesso il nostro servizio sanitario pubblico, sarebbe facile cavarsela così, esso invece è uno specifico sfondo culturale della psichiatria.

A questo riguardo la tragedia ha stimolato delle riflessioni che ci inducono a dubitare del valore esplicativo delle due ipotesi che per prime sono venute alla mente di molti:

1 la colpa è della applicazione della leggeche ha abolito il concetto di pericolosità, enunciato nella legislazione precedente. Gli psichiatri che ci hanno creduto hanno voluto poi farlo credere a tutti, ma è stato per loro stessi un boomerang e pertanto, a volte, pagano anche loro (oltre i pazienti e i famigliari) le conseguenze di tale ideologia precostituita e “antiscientifica”.

2 la colpa è nella non applicazione della leggeda parte di amministratori miopi e avari e di psichiatri retrivi e reazionari. Bisogna intensificare l’impegno per la sua completa attuazione, altrimenti sono gli operatori stessi, e magari proprio quelli più generosamente impegnati, a pagarne le conseguenze (oltre i pazienti e i famigliari).

Forse entrambe le ipotesi non sono totalmente inesatte ma peccano di incompletezza o inesattezza, forse possiamo esimerci dal dover necessariamente scegliere tra esse e invece tentare di cercare un’altra narrazione che parta dal considerare che entrambi, il malato aggressore e la psichiatra aggredita, sono delle vittime. Vittime collaterali di una psichiatria che è gravemente sofferente e che, a ben guardare, è affetta da due distinte patologie a genesi diversa, anche se extrapsichiatrica per entrambe, ma che concorrono insieme alla sua ingravescente invalidità.

L’una si potrebbe definire una epidemia limitata alla nostra nazione, l’altra invece come una pandemia, dato il suo carattere globale, almeno per quanto riguarda il cosiddetto mondo occidentale.

Esaminiamo per prima quella a carattere nazionale. È noto che in Italia fin dagli anni 60 70 vi è una forte, per quanto minoritaria, corrente culturale denominata “antipsichiatria”, di matrice esistenzialista e quindi antipositivista, libertaria e perciò antistituzionale.

<<La malattia mentale non esiste, è un artefatto della borghesia capitalista>>

<<L’ospedale psichiatrico è luogo di coercizione che fabbrica la malattia mentale>>

<<Lo psichiatra è un servo dei padroni>>

<<La libertà è terapeutica>>

Sono alcuni degli slogan, facilmente rintracciabili nelle cronache dell’epoca, che ben condensano il pensiero antipsichiatrico, al tempo manifesto e oggi latente.

Essa, nel particolare panorama sociopolitico dell’Italia dell’epoca dominato da due culture, quella cattolica e quella marxista, trovò proprio nel “catto-comunismo” contemporaneo, in cui peraltro non si riconosceva ed anzi combatteva apertamente, la forza politica che riuscì in extremis a disinnescare il pericolo dell’abolizione totale della psichiatria, scopo ultimo dell’antipsichiatria.

Gli antipsichiatri si dovettero perciò accontentare che la legge 180 abolisse la definizione di “pericoloso a sé e agli altri” e sancisse la chiusura degli ospedali psichiatrici (unico caso al mondo!), mentre la Democrazia cristiana e il Partito comunista riuscirono comunque a trattenere la psichiatria nell’alveo della scienza medica e infatti la legge 180 (falsamente attribuita a Basaglia) entrò a far parte del servizio sanitario nazionale, istituita per la prima volta in Italia con la legge 833 in quello stesso 1978 e di cui la 180 era uno stralcio anticipatorio.

Ciò permise alla psichiatria, in quanto specialità della medicina, da un lato di utilizzare il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) già esistente per le malattie infettive contagiose e, dall’altro, di sostituire la contenzione fisica con la contenzione chimica grazie all’uso sempre più massiccio di psicofarmaci, tipico strumento medicale.

Fu però, per il potere politico cattocomunista, una vittoria di Pirro perché, se da un lato, nelle istituzioni sanitarie, la psichiatria fu definitivamente considerata una specialità medica dall’altro invece nella società e nella cultura, in specie in quella di sinistra cosiddetta progressista e/o antagonista, la crociata contro l’idea stessa di malattia mentale e contro la psichiatria continuava e si affermava sempre più.

Perché questo continuo cedimento culturale a cui solamente le forze conservatrici si oppongono, se pur grossolanamente e retoricamente? La ricerca quarantennale a cui ho partecipato mi spinge a proporre questa ipotesi.

E’ evidente che la società così come è strutturata da oltre un secolo e mezzo, specie nella sua versione occidentale, non piace (giustamente) a molti, i quali si sentono soffocare da un positivismo inarrestabile, da un materialismo che sa conoscere solo se stesso, da una continua esaltazione euforica della realtà materiale dei fatti manifesti, da una assenza ingravescente di umanità, da una cultura che di tutte le attività umane ha posto l’economia sul piedistallo sovrastante le altre, l’utile sopra il bello, il vero, il buono, proponendo come principale unità di misura del benessere la ricchezza materiale.

Tutti coloro che in un modo o nell’altro si sono opposti e si oppongono a tale cultura positivistica sono qualificati come disadattati, fuori contesto, diversi, mistici, antisociali, impulsivi, romantici, visionari, matti. Cercando una sola parola che contempli tutte queste definizioni, la troviamo nel termine “irrazionali”.

“Irrazionale”, questa è la parola anatema attribuita a tutti quei personaggi “anormali” malati di mente autodistruttivi ed etero distruttivi, quelli che hanno saputo solo “andare contro” la realtà opprimente e violenta, senza alcuna trasformazione reale di essa ma anzi, rivelandosi essi stessi pericolosi per sé e per gli altri, hanno dimostrato nei fatti l’inutilità di ogni ribellione nel fare cose distruttive e perciò pazze.

Ma la stessa definizione è utilizzata anche per altri personaggi, quei personaggi “anormali” (artisti, scienziati, scrittori, sportivi ma anche politici o imprenditori) che hanno saputo “andare oltre” la realtà contemporanea, cercando, proponendo, a volte realizzando cose inimmaginabili nel loro tempo. Cose eversive e perciò folli.

La distinzione tra Pazzia e Follia, tra malato e diverso, è una distinzione, non lessicale ma categoriale, proposta dalla teoria della nascita, mentre la contrario la cultura dominante, coniugando insieme l’una e l’altra, confonde l’anormale creativo con l’anormale distruttivo, e dando ad entrambi la stessa etichetta “irrazionale”, stupidamente e violentemente finisce, (la parte più reazionaria) a condannarle insieme e (la parte più -cosiddetta- rivoluzionaria) ad esaltarle insieme.

Evidentemente la cultura dominante non sa percepire e distinguere, nell’ambito di coloro che disturbano la quiete normale di chi segue fedelmente la consuetudine e le abitudini della norma storica, tra le opposte motivazioni di chi “rompe” la quotidiana ripetizione per agire una vendetta distruttiva e di chi invece lo fa per costruire un mondo più umano. Tra chi fa fantasticherie deliranti e chi fa bei sogni e ha fantasia. Tutti irrazionali, tutti eguali. E in particolare per gli “antagonisti”, affogati ideologicamente nel dubbio e nell’ambiguità, tutti da difendere aprioristicamente.

Così la cultura “avanzata” cosiddetta progressista è passata da Lombroso, uno dei primi a iscriversi al Partito socialista italiano, che, al fine di proteggere la società dagli “irrazionali”, li considerava tutti degni del manicomio criminale, a Basaglia che al fine di proteggere gli “irrazionali” dalla società razionalmente disumana li voleva tutti liberi, liberi di creare o di impazzire. E che la società si adatti ad entrambi.

Affrontiamo ora la seconda patologia da cui è affetta la psichiatria, stavolta essa è a diffusione sovranazionale, “pandemica”, la sua diffusione si estende infatti ben oltre la psichiatria, avendo essa una “infettività” culturale ben più vasta, nella misura in cui si esplica in una epistemologia connotata dall’accecamento nei riguardi del latente, del non esplicito, del non verbale, delle intenzioni inconsce, applicato a tutte le manifestazioni della società civile.

E’ l’impostazione intellettuale egemonica, in Occidente specialmente, per cui la ricerca ad ogni livello sociale: culturale, politico, sindacale, scolastico, militare, legislativo, amministrativo etc., viene svolta utilizzando elementi che rappresentano solo il manifesto, l’esplicito, le cose evidenti, la lettera delle parole o la visibilità delle figure, al di fuori del concreto rapporto interumano. Al di fuori di quella sensibilità, irrazionale appunto, che ci farebbe esprimere con un <<tu parli bene, tu hai delle belle idee, tu ti comporti bene, ma… però…la verità è un’altra!>>

Una enorme operazione culturale (ma con forti ricadute economiche e politiche da non sottovalutare) di scissione della soggettività irrazionale dall’identità umana, che così azzoppata può appoggiarsi solo su una gamba, quella della razionale oggettività materialistica, la quale è, di per sé, impotente a sentire e comprendere la realtà latente degli umani, sani o malati che siano. È la scissione che, spaccando l’Umanità in soggetti razionali e irrazionali, impedisce ai primi di saper distinguere, tra i secondi, chi è malato e chi è sano.

Che la Forza pubblica si premuri di intervenire principalmente e fondamentalmente quando è un comportamento a risultare illegale è un fatto dovuto e accettato, anche se criticabile.

Che la Legge giudichi imputabile, ovvero sano di mente, chi è “capace di intendere e volere”, anche se ha una anaffettività fredda come quella di un cobra assassino, può avere delle conseguenze molto gravi. Perché per es. rischia di considerare delinquente colui che, per esempio, lascia consapevolmente morire di inedia un bimbo preferendo passare il tempo con il partner, mentre è ovvio che questa è la manifestazione anaffettiva di grave malattia mentale. O viceversa considerare innocuo e permettere di uscire dal carcere ad un assassino solo perché “da molto tempo si comporta bene e ha manifestato pentimento”. La “capacità di intendere e volere” di matrice illuministica può benissimo convivere con la malattia mentale.

Ma che la psichiatria escluda da sé stessa la soggettività, conscia e inconscia, dei suoi protagonisti, che siano operatori, pazienti o malati, è un oltraggio all’identità umana della nostra specie. Una lesione a quanto ci rende umani. Significa accecare l’umano su sé stesso e sugli altri, impedire di vedere il sensodelle comunicazioni e delle azioni umane.

Invece questo è quanto viene portato avanti dalla psichiatria medesima che da molti anni, sull’onda di una fenomenologia positivistica, mira ad annientare la propria identità, ovvero cancellare ciò che la differenzia dal resto della medicina, cercando violentemente di amputare da sé stessa la psicoterapia, ovvero di ridurre la psichiatria che è medicina della mente alla pura e semplice medicina del corpo; in sintesi annullare ogni differenza epistemologica e metodologica tra psichiatria e neurologia. A questo punto il malato mentale viene trattato come se avesse una malattia del fegato o della tiroide o del cervello appunto e deve adeguarsi alla prevedibile (e tranquillizzante) oggettività farmacologica, in tal modo né lui né il suo psichiatra debbono rischiare l’imprevedibile soggettività interumana che, pur essendo poco “galileiana”, è però il fondamento epistemologico imprescindibile della psicoterapia, psicodinamica in particolare. Quest’ultima viene lasciata dalla Medicina (dalla Psichiatria) a quella parte della Psicologia che, per fortuna, non si sottrae a tale compito sanitario.

In definitiva, tornando alla vicenda in oggetto, sembrerebbe che queste due “patologie culturali” riferite alla psichiatria, abbiano dimostrato la loro distruttività con il loro sinergico intrecciarsi nel tragico esito della vicenda pisana.

Un intrecciarsi ben riuscito a quanto pare, visto che da un lato permetteva ad un malato di mente grave e violento la libertà di coltivare il suo pensiero delirante e paranoide partecipando, invitato, a convegni antipsichiatrici e dall’altro spingeva una solerte e scrupolosa psichiatra a sottovalutare quella violenza a cui solo la malattia mentale può giungere, trascurando le precauzioni necessarie per difendersi da essa, nonostante gli avvertimenti ricevuti, come riportato dalla cronaca massmediatica.

Questa tragedia non riguarda solo una singola psichiatra ma la psichiatria tutta.